Il mio paese

Tra le strade di Gela, nel porto e sulle spiagge, si intersecano le testimonianze dei primi protagonisti del documentario: un sindacalista edile, lucidamente consapevole delle insufficienze della storia industriale della sua città, un pescatore che non si arrende a un destino da migrante, gli extracomunitari scampati alla traversata del Mediterraneo, in cerca di un’identità sociale. Questo pezzo di Sicilia è quotidianamente percorso dai pullman che ancora oggi portano gli italiani a lavorare all’estero, in Germania, verso il Nord. Il regista viaggia con loro, la prima tappa è Termini Imerese, simbolo di un declino industriale reso ancor più cupo dallo spettro di una nuova povertà.
In Basilicata, le catene di montaggio della Fiat di Melfi convivono con il tentativo di strutturare un’economia agricola di qualità, rafforzata dalla collaborazione tra i piccoli produttori, dalla storia antica di ogni vigneto e di ogni paese. Il futuro appare gravato da un senso di solitudine e di fatica. È lo stesso disagio che traspare dalle parole dei ricercatori dell’Enea, personalmente impegnati nello studio di fonti alternative di energia e tuttavia critici nei confronti dell’attenzione che il paese riesce a dedicare a questo settore strategico.
Il pullman corre sull’ autostrada, la fermata successiva è Prato, cuore di un distretto industriale che ha divorato la promessa di bellezza e guadagno degli anni Ottanta e che si ritrova a fare i conti con i nuovi scenari internazionali e con la concorrenza certo non tenera dei cinesi. Lo scrittore Edoardo Nesi, ex imprenditore tessile, usa le parole di un suo libro: i suoi ricordi, la sua esperienza diretta del presente, per raccontare il drammatico momento vissuto dalla sua città, in cui gli operai perdono un lavoro faticosamente conquistato sei mesi prima e gli imprenditori ammettono il fallimento di un’intera strategia gestionale.
Il viaggio termina a Marghera, il luogo che più di ogni altro incarna la complessità della storia dell’industria italiana, del bivio che oggi essa fronteggia: Gianfranco Bettin, a lungo vicesindaco di Venezia, parla tra i canali del Petrolchimico, dell’importanza di una riflessione sul lavoro, della necessità di scelte coraggiose per affrontare le sfide del futuro e della modernità, senza annullare il passato. Tornano le immagini del pullman, dopo quasi 48 ore, è arrivato in Germania, riparte vuoto per la Sicilia.

Regia: Daniele Vicari
Anno di produzione: 2006
Durata: 105′
Produzione: Vivo Film; in collaborazione con Rai Cinema

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RECENSIONI ::: http://www.spietati.it
Sui frammenti di un film di Joris Ivens

Testo teneramente offensivo che scatena un’infinità di considerazioni e riflessioni, Il mio paese è un documentario pensosamente affascinante. Schivando i tracciati del semplicismo e della linearità, il “viaggio documentato dal cinema” di Vicari sceglie la modalità dell’aderenza alla materia rappresentata e dell’erranza dello sguardo, strutturandosi attorno a tre grandi assi semantici che si sovrappongono continuamente:
1- Il documentario commissionato da Enrico Mattei a Joris Ivens nel 1959 intitolato L’Italia non è un paese povero e pesantemente censurato dalla Rai (che lo mandò in onda nell’estate del 1960 con l’agghiacciante titolo Frammenti di un film di Joris Ivens). Dialogando con estratti dalla pellicola ivensiana, Il mio paese ripercorre a ritroso il viaggio del cineasta olandese risalendo la penisola da Sud a Nord in un ideale “quarantacinque anni dopo”.
2- Il viaggio di quasi 48 ore del pullman Sicilia-Germania carico di italiani che vanno all’estero poiché nel loro paese non hanno prospettive di lavoro: il tragitto del pullman fornisce l’occasione a Vicari di fare tappa in alcune delle regioni attraversate (Sicilia, Basilicata, Lazio, Toscana e Veneto) e di convertire la sosta in pausa di riflessione. Fotografie in movimento.
3- La presenza di personaggi-guida che introducono alla realtà socioeconomica locale: grazie all’alternanza di voci appartenenti a estrazioni sociali e livelli professionali diversi si creano dissonanze di enorme fertilità (come nella sezione veneziana, che mette a confronto il piccolo miracolo operaio dell’Interporto con i laboratori ipertecnologici del Petrolchimico di Marghera).
Ovviamente l’avvicendarsi di queste tre spine dorsali – soprattutto la decisione di dare la parola ai protagonisti delle realtà locali – produce sensibili variazioni di tono e registro, oscillando tra il nostalgico e il terrorizzato, l’entusiastico e il rassegnato, il retorico e il patetico (in questo senso la sezione pratese è secondo chi scrive quella più enfatica e declamatoria), ma ciò che sottrae Il mio paese alla deriva contenutistica (anticamera del ricattatorio) è esattamente il lavoro del cineasta: guardare. Vicari, che già nel modesto Velocità massima e nel non completamente disprezzabile L’orizzonte degli eventi aveva mostrato di sapersi svincolare dalla morsa del narrativo e osservare le cose attorno alla cinepresa, fa quello che vorremmo ogni cineasta facesse e che a nostro avviso costituisce il solo dovere del cineasta: esercitare lo sguardo, sapersi incantare di fronte alla misteriosa evidenza delle cose. Lo sguardo si fa interrogazione del/sul reale, principio di compenetrazione e riformulazione dell’apparenza: si tratta esattamente di quella “apertura di sguardo, disponibilità all’avventura del nuovo tempo” che il sociologo veneto Gianfranco Bettin segnala alla contemporaneità come rimedio alla paura dell’avvenire e come antidoto alla vecchiaia dell’Occidente. In un documentario sul lavoro Vicari fa il suo lavoro, insomma. Quello che ci piace e convince di più de Il mio paese è dunque questa consapevolezza di sguardo, questa capacità di guardare criticamente il reale senza appiattirsi sulla sua flagranza, lasciando alla visione la facoltà di pensare se stessa mentre si produce. Il farsi di un pensiero visivo. Senza seduzioni, senza arroganza: cinematograficamente.
Alessandro Baratti
Voto: 7.5

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